Pacific
Golden State Warriors compito arduo quello di Mark Jackson,
terzo miglior assistman della storia di questo sport, coach del team giallo blu
dallo scorso anno. La passata stagione, l’ eloquente 23 – 43 finale la dice
lunga sulle qualità generali di questo team e per questa stagione il compito
dell’ ex play di New York è sicuramente quello di avvicinarsi verso la soglia
del 50% di vittorie. Materiale su cui lavorare ce n’è parecchio ma la scarsa
esperienza della maggior parte del rooster e gli acciacchi fisici dei più
esperti fanno dei Warriors una vera incognita. Quasi la metà dei giocatori è al
massimo al secondo anno in Nba e nonostante alcuni giovani di sicuro interesse
come l’ ex Tar Heels Harrison Barnes (7°
scelta assoluta del draft di quest’anno) o come il sophomore Klay Thompson (16
punti di media in questo inizio per l’ ex Washington State) il doversi
confrontare con i mostri sacri della palla a spicchi è ben altra cosa rispetto
al college basketball. Le stelle della squadra, oltre al giovane ma già leader
Stephen Curry, dovrebbero essere i due nuovi arrivati: Richard Jefferson e Andrew
Bogut. Il primo, guardia con molti punti nelle mani, sembra però aver perso la
verve dei tempi dei Nets e, complici problemi fisici, viaggia all’ eloquente
media di 4 punti a partita. Bogut, centro australiano ex prima scelta Nba nel
2005, arrivato a Oakland in cambio di ben tre giocatori (Ellis, Brown e Udoh) è
sicuramente in grado di spostare gli equilibri (2.13 di altezza per 118 chili)
ma viene da un serissimo infortunio alla caviglia e le sue condizioni fisiche
destano ancora molta preoccupazione. Le aspettative non sono delle più rosee ma
siamo certi che il pubblico dell’ Oracle Arena dovrebbe vedere la sua squadra
migliorare il triste record della passata annata.
Los Angeles Lakers se dovessimo guardare questo terribile
inizio di stagione (8 sconfitte su 8 in preseason e 5 sconfitte e 3 vittorie in
campionato) che è costato la panchina a coach Mike Brown (anche se sostituire
un guru come Phil Jackson non sarebbe facile per nessuno), le incertezze per
designare il successore dell’ ex trainer dei Cavs (prima il possibile ritorno
di Jackson, le pretese economiche di quest’ultimo ed infine la scelta di Mike D’Antoni)
e le notevoli difficoltà per amalgamare nel gioco dei californiani i neo
arrivati a LA dovrebbero dormire sonni tutt’altro che tranquilli.
Alla lunga invece i valori di questa squadra emergeranno ed
allora sconfiggerli dovrebbe diventare impresa assai ardua. Poter presentare
nello stesso istante, e con la mitica divisa giallo-viola sulle spalle, sul
parquet campioni come Kobe Bryant, Metta Word Peace, Pau Gasol, Dwight Howard e
Steve Nash è roba da far luccicare gli occhi e dar far pensare agli esperti
che, nonostante un’età media altina, questo sia il team da battere. Le difficoltà
ci sono perché far coesistere così tanti fenomeni (non dimentichiamoci che in
panchina ci sono i vari Jamison, Blake, Duhon e Hill) non è semplice, ognuno di
essi vorrebbe avere in mano il tiro decisivo e il compito assai arduo di
limitare l’ egocentrismo di Bryant e soci spetterà al neo arrivato Mike D’Antoni.
Dopo i complimenti ricevuti a Phoenix e gli “schiaffi” presi a New York, per l’
ex coach di Milano e Treviso è questo il momento di scrollarsi di dosso l’ abito
del bello ma inconcludente per indossare finalmente i panni del vincitore. Se Steve
Nash, autentica propagazione in campo dello spettacolare gioco dantoniano,
dovesse reggere fisicamente ad una stagione logorante come quella Nba e se l’altro
nuovo acquisto Dwight Howard (il più forte centro della Nba dai tempi di Shaq)
avrà superato i numerosi problemi alla schiena probabilmente l’ anello tornerà
ad ovest e la bacheca losangelina si impreziosirà del titolo numero 17.
Los Angeles Clippers una delle squadre meno vincenti della storia di questo
sport ha finalmente voglia di far ricredere gli scettici dimostrando di poter
competere per traguardi ambiziosi. Certo condividere la città e l’impianto di
gioco con i Lakers, una delle franchigie più vincenti della storia, non dev’essere
facile ma il progetto portato avanti da Donald Sterling è di quelli intriganti
e già l’ anno scorso (sconfitta in semifinale di conference contro i San
Antonio Spurs e miglior risultato della storia eguagliato) i primi frutti si
sono visti. Confermato l’ asse portante della squadra (Paul, Griffin, Foye,
Butler e DeAndre Jordan) e con il prossimo rientro dall’ infortunio del
veterano Billups gli ex Buffalo Braves hanno puntellato la panchina rendendola
una delle più profonde e meglio assortite della lega. I ritorni dei figliol
prodighi Lamar Odom e Matt Barnes (entrambi cresciuti ai Clippers e poi esplosi
con la divisa degli odiati cugini) e gli arrivi dell’ ex 76ers Willie Green e
del sopraffino fromboliere Jamal Crawford aumentano esponenzialmente la pericolosità
della compagine di coach Vinny Del Negro che è una serissima candidata per
ripetere, se non migliorare, la splendida stagione passata.
Phoenix Suns prima Amare Stoudemire e
adesso Steve Nash, i due simboli dei Suns di D’Antoni che facevano impazzire le
difese di mezza Nba se ne sono andati lasciando un vuoto incolmabile nel cuore
dell’ Arizona. A Kendall Marshall, 13° scelta al draft di quest’anno da North
Carolina, e a Goran Dragic, ritornato
dopo un anno a Houston, il compito di rimpiazzare il funambolico play canadese.
Altri colpi significativi del mercato di Phoenix sono l’ ex seconda scelta del
draft 2008 Michael Beasly, arrivato nella lega come autentico crack ma, prima a
Miami e poi a Minnesota, mai definitivamente esploso, il gaucho Louis Scola
(scaricato letteralmente dopo un lustro in quel di Houston) e il logoro
Jermaine O’Neal, sei volte All star ma ormai da troppo tempo lontano dagli
splendidi tempi di Indiana. Materiale su cui lavorare per il povero Alvin Gentry
non c’è né poi tanto e per rivedere i Suns allo post season ne dovrà passare di
acqua sotto i ponti…
Sacramento
Kings gli ex Rochester
Royals poi diventati Cincinnati Royals, Kansas City King ed infine Sacramento
Kings, una delle franchigie ad aver cambiato città e denominazione sociale più
volte (oltre a ben 7 palazzetti diversi) anche quest’anno raccoglieranno ben
poca gloria. I tempi di Webber, Divac, Bibby e company sembrano lontani anni
luci e la lenta e difficoltosa rivoluzione costringerà i californiani a vedere
dalla tv la post season. Per Keith Marshall, alla prima stagione dall’inizio
come coach dei Kings, gli ostacoli saranno parecchi ma la possibilità di poter
lavorare con un gruppo di giovani potrebbe rappresentare uno stimolo in più per
insegnar loro il giusto modo per approcciarsi al campionato di basket più bello
del mondo. I leader della squadra sono Tyreke Evans, 4° scelta al draft 2009 da
Memphis, subito nominato rookie of the year e confermatosi poi con gli anni
come signor realizzatore (18 punti di media in carriera), Isaiah Thomas (scelto
l’ anno scorso alla posizione numero 60 del draft ma diventato fin da subito
punto di riferimento) e l’ irascibile DeMarcus Cousin (centrone di 2.11 per 130
chili). Accanto ai tre tenori ben poca roba (Aaron Brooks, Travis Outlaw e John
Salmons i più conosciuti)tanto che mi azzardo a dire che i manifesti comparsi
per Sacramento in cui si diceva a gran voce “He We Rise” (è tempo di risorgere)
dovranno essere rimessi nei cassetti per un bel po’ di tempo.